La Morte

La Morte
(riflessioni irriguardose dopo la visita alla cripta del Convento dei Cappuccini)

In una romana domenica d’ottobre a 26 gradi ho deciso di vincere la (flebile) tentazione di spazzare i pavimenti e vagare per il Centro. Siccome non sono molto bravo a vagare, visto che l’atto stesso del gironzolare senza un obiettivo mi procura ansia, ho preferito individuare una meta che progettavo di raggiungere da un po’: il Convento dei Cappuccini in Via Veneto, quello famoso per la sua Cripta letteralmente decorata con le ossa di migliaia di francescani morti.
Alla cripta si accede dopo un percorso che gli organizzatori hanno allestito per giustificare il decisamente poco francescano costo del biglietto di ingresso, vale a dire 8 euro e mezzo, tariffa intera. A parte il capolavoro di Caravaggio, il San Francesco in Meditazione, il percorso che porta alla cripta non offre molte sorprese: vecchi libri, strumenti di autoflagellazione che ho scoperto chiamarsi “discipline“, torchi ampolle e altri trascurabili aggeggi che i cappuccini hanno usato nei secoli per fare le loro cose da frati (tipo le tinture di oppio. Se la spassavano i cappuccini).
Poi arriva la cripta e si apre un piccolo mondo grottesco, una finestra polverosa sull’Estrema Nemica, sei stanze poste in fila lungo una bizzarra e soffocante promenade che in meno di venti minuti ha cancellato dalla mia attività vigile quel ticchettio incessante, che a volte lo senti a volte no, quelle nocche invisibili che bussano su una porta altrettanto invisibile che insomma lo sapete di cosa sto parlando: la Morte.
Faccio fatica a descrivere puntualmente quello che ho visto quindi invito, almeno chi vive a Roma, ad andare a visitare questo luogo. Non è un ossario e neanche una cripta come la possiamo immaginare: le ossa non sono impilate né accatastate, sono utilizzate per decorare gli ambienti, i soffitti, i muri.
Parlo di decorazioni folte, ossessive: mandibole unite per le giunture che creano cerchi sulle volte, bacini spezzati a metà che diventano ora le ali di un teschio a rappresentare un angelo, ora le pietre di un arco a volta, colonnati fatti di spine dorsali, lampadari di clavicole, la bilancia della Morte, impersonata (si fa per dire) dallo scheletro di un bambino, fatta con costole incrociate e due piccole ossa concave per piatti, probabilmente ricavate da un piccolo cranio spaccato a metà e poi un cielo stellato di vertebre a disegnare ornamenti ovunque.
Non si sa bene chi sia stato a usare le ossa di 3500 cappuccini per decorare la cripta in modo da farla diventare il brutto hangover di un vampiro che è andato a caccia in un rave, ma non si fatica a intuire che quest’opera delirante sia il risultato dell’approccio francescano a quella “sorella Morte” da cui nessuno può sfuggire e che, dunque, conviene amare.
Io che sono ateo e non ho visto altro che spoglie mortali di persone, utilizzate come maioliche o complementi d’arredo, ho prima provato a ridere senza riuscirci, visto che l’effetto complessivo è sul serio comico, poi quel comico si è trasformato in grottesco, visto che non si riusciva a riderne, poi il grottesco è diventato orrendo, ma di un orrore silenzioso e immobile, con i residui sedimentati del gigantesco paradosso di una risata che fa eco un po’ dappertutto ma che non è mai iniziata perché non è affatto il caso.
La Morte, appunto.
Ma non quella degli altri o dei tuoi cari (quella esiste ed è fin troppo concreta): proprio la tua, quella che non puoi spiegare col dolore né rammollire tra i ricordi perché è l’unico evento che ti accadrà senza che tu abbia occasione di sperimentarlo. Se vogliamo, è letteralmente la fine del Tempo, quella cosa iniziata col Big Bang, l’attimo in cui diventiamo davvero importanti per le sorti dell’Universo.

E infatti la Morte in quella cripta c’è e non c’è. Esiste perché la vedi ovunque ma è utilizzata per decorare uno spazio, quindi non esiste. È una scelta, ma che non puoi evitare di compiere. È appunto un paradosso, perché sono vivo eppure è lì, qualche passo più avanti, la vedo con i miei occhi, la tocco. La conosco. Ma non esiste.

Mi sa che non muoio.
Massì, ma che muoio a fare.

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