IT – Capitolo 1 (2017)

IT (Andrés Muschietti, 2017)
ovvero: la schiacciante contemporaneità del passato

Ci sono diverse ragioni che portano un film a sfondare una certa barriera, oltre la quale prende avvio un processo di cultizzazione che ne fa un oggetto più che un prodotto o un’opera: a volte bisogna presentare qualcosa di mai visto prima (vedi Pulp Fiction – Q. Tarantino, 1994), altre volte c’è bisogno di qualcosa di duro, come la morte dell’attore fregno (vedi Il Corvo – A. Proyas, 1994 – che è oggettivamente un film ORRENDO a dispetto dei nostri ricordi vaginali), altre volte ancora è la produzione un po’ undergroud associata a un tema bizzarro, più il fatto che la maggior parte di noi ha visto il film in casa fumando marijuana (vedi Donnie Darko – R. Kelly, 2001).
Nel caso di IT gli ingredienti pop sono esplosivi: il poderoso bulimico prolisso madornale mattone di King, che con quel libro ha creato un mondo e addirittura una preistoria dal nulla e per questo magari merita un posticino al fianco di grandi secchioni come Tolkien, la miniserie per la tv del 1990 col Tim Curry del Rocky Horror Picture Show che, vestito da Ronald McDonald, smembrava bimbi in impermeabile e quella fortissima cifra nostalgica che impolvera l’intera operazione fin dal suo concepimento. Stiamo parlando di un overload di input nerd che fanno uscire il sangue dal naso a gente come me.

E adesso SPOILER ALERT, ma poco.

IT non è un remake perché il film del 1990, che ha segnato per sempre la nostra infanzia e il nostro modo di gestire l’apparizione dei pagliacci alle feste, non era un film per il cinema, bensì per la tv: la sua produzione era piuttosto limitata e reificata drammaticamente nella scena finale con quel cazzo di ragno coi fuochi d’artificio in pancia. Questo film invece è la prima trasposizione cinematografica del più celebre romanzo di Stephen King, che è tipo la Coca Cola della letteratura, senza gli abusi territoriali.
Fedele al romanzo quanto basta per far storcere il naso ai kinghiani oltranzisti, è un film mastodontico, obeso, molliccio, retorico nella struttura e perfino nella fotografia che sembra quella degli horror anni 80, a partire da Nightmare (citato insieme a una marea di altra roba di quegli anni).
E’ probabilmente l’horror più ossessivo e ritmato del decennio, forse del ventennio, ma facciamo pure del trentennio, procede per accumulazione come gli slasher movies degli anni 80 o come un brano musicale, interamente costruito su una climax e niente più: come il clown di cui si narra, il film ha l’unico scopo di mettere in ordine crescente le orride apparizioni dell’entità kinghiana in un delirante Bolero che a metà storia inizia a far ridere. Gli elementi ridicoli si mischiano così agli spaventi facili (jumpscares veri e finti, piazzati a tradimento dalla musica) creando quello che alla fine assomiglia all’incubo di un bambino: un percorso grottesco e insensato lungo corridoi sotterranei (le “fogne”) dalla portata simbolica fin troppo evidente la qual cosa, semmai non l’avessimo colta, ci viene proprio spiegata per bene nel finale.

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IT è un film che ha le palle, anzi i palloncini per aggrovigliarsi, nelle sue oltre due ore, in un vortice assordante di trovate visive, accelerando il concetto di spavento, che è difficile da ottenere oggi come oggi, e convertendolo in una bizzarra nuova formulazione di tensione grottesca, di respiro corto e accelerato: non c’è pietà per lo spettatore né per la logica della narrazione perché IT parla la lingua delle paure preadolescenziali, che non stanno a guardare il capello. Se non tutto, molto ruota intorno al sangue, che è quello di Beverly e delle sue mestruazioni, segnale pericolosissimo di ingresso in una vita in cui si diventa oggetto di attenzioni indesiderate, quando non orribili e violente (come quelle del padre). IT è sostanzialmente questo, è una verbosissima metafora sulla perdita dell’innocenza e lo è anche nel libro, quindi ragazzi: missione compiuta.
Che il film faccia paura o meno dipende molto dalle singole sensibilità: io credo che vada guardato come guarderemmo oggi Stand By Me (R. Reiner, 1986), con cui ha più di una parentela a partire dalla matrice kinghiana, o i Goonies (R. Donner, 1985)… ecco, IT è un Goonies più stronzo, ma con lo stesso spiazzante coraggio narrativo che avevano i film di quegli anni, quell’atteggiamento di chi se ne sbatte di cosa ha senso e cosa no, consegnando tutto all’intrattenimento e ai popcorn che saltano stagliandosi neri oltre la linea luminosa dello schermo, a seguito di un’apparizione improvvisa del Mostro che fa scattare tutti sulla sedia. In piena orgia nostalgica anni 80, aggiungiamoci l’inevitabile capolino di Stranger Things perché ovviamente stiamo parlando di un blockbuster.
Menzione particolare per il clown di Bill Skarsgard, che riesce nell’impresa di non far rimpiangere Curry, rendendo un personaggio iper-interpretato, iper-truccato, iper-protagonista al punto che in un’inquadratura la camera indugia sulla sua espressione svuotata dopo che la vittima di turno gli ha sbattuto la porta in faccia: non è frequente vedere cosa fanno i Mostri quando non li vediamo, e probabilmente quella è la scena più spaventosa di tutto il film.
Pollice contro per gli effetti visivi fatti con ‘sta CGI plasticosa che mette a durissima prova la sospensione dell’incredulità: molto meglio, finché non riusciremo a rendere tutto meno sintetico, il caro vecchio “trucco e silicone”.
In sostanza IT è l’ennesima operazione nostalgia camuffata (molto bene) da filmone per regazzini di ieri e di oggi, che alla fine lascia anche qualcosa. Io per esempio ho avuto gli incubi stanotte e, come accade in IT, ho affrontato le mie più grandi paure: non mi entravano più i Levi’s.

Voto: 3 maceti di Jason Voorhees e mezzo su cinque

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Senzanome

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