Ovvero: Kubrick did it!
Tutto ciò che Nolan tocca diventa oro al di là dei meriti del regista o dell’opera e Interstellar non sembra avere alcuna voglia di fare eccezione. Questo madornale sci-fi di quasi tre ore conferma e aggrava pregi e (soprattutto) difetti di un regista noto per la sua verbosità e per il suo morboso rapporto con i piani narrativi infilzati a spiedino, con l’aura del nuovo Spielberg ma con ambizioni autorali non sempre all’altezza.
A rendere tutto più fastidioso c’è poi Kubrick nominato invano nelle varie entusiastiche recensioni, per cui al cinema ero carico a molla e pronto a storcere il naso così tanto da farmelo cadere dalla faccia, rimbalzare per terra e risalirmi su per il culo.
Premessa d’obbligo è che, per fortuna, di Kubrick (2001 era il paragone improvvidamente agitato) c’è ben poco, a eccezione di qualche divertente citazione come il robot a forma di monolito, qualche riflesso psichedelico sul casco del carapace rinsecchito di McConaughey, facce scioccate dalle distorsioni spazio-temporali e questa fissa di mostrare gli intraducibili nuovi stati della materia in forma di stanze (per Kubrick/Clarke era una camera da letto, per Nolan, che evidentemente soffre di un legittimo complesso di inferiorità, è una libreria, perché la libreria fa subito cultura).
SPOILER ALERT: per sapere come va a finire questo film, guardatevi una qualsiasi puntata di Futurama. Anche Rick & Morty va bene.
Insomma questo film di Nolan è molto bello per essere un film di fantascienza americano, se il termine di paragone è Armageddon (cui assomiglia molto per il livello dei dialoghi), meno bello diventa quando cerca di parlare del senso dell’esistente o peggio di fisica quantistica. In questo senso è una specie di brutto bignami di matematica applicata, uno “String Theory for Dummies” che commette l’errore grossolanissimo di porre una mole enorme di domande e di dare tutte le risposte, senza neanche cercare di camuffarle, ma affidandole a estenuanti dialoghi tra gente di scienza (questo lo sappiamo perché ogni tanto la pelle liquefatta di McConaughey dice ad Anne Hataway “tu sei una scienziata”, in modo da convincere sia lei che noi che effettivamente sì, è una scienziata). Attraverso questi dialoghi siamo resi edotti di alcuni fatti interessantissimi: che il tempo è una dimensione a tutti gli effetti, che avvicinarsi a un buco nero sono cazzi a causa della forte gravità, che la gravità distorce anche il tempo in base al primo postulato, quindi vicino a un buco nero un’ora vale sette anni, come gli anni dei gatti ma peggio. Tutto questo viene reso digeribile da una colata di cliché U-S-A (da pronunciare all’americana, scandendo ogni lettera) tra cui: gente che sembrava buona e diventa cattiva, ma cattiva senza senso, una cosa che oggi non fa più neanche la Disney; gente non così cattiva ma ambigua, che è stata costretta a mentire, pora stella, per il bene dell’Umanità; dialoghi di questa levatura: “è impossibile!” “non è impossibile, è necessario”, durante una manovra spaziale che apprendiamo essere molto difficile. Poi, siccome parliamo sempre di Nolan, la linea narrativa prende a sfilacciarsi e uno finisce nella quinta dimensione, un’altra su un pianeta a figliare, dissolvenza in nero ed ecco che tutti i problemi gravissimi che si stavano ammassando uno addosso all’altro appena dieci secondi prima appaiono risolti e se ti venisse in mente di lamentarti dei nodi di sceneggiatura attaccati con lo sputo, beh la risposta è scioccante: il tempo è relativo. Ed è una dimensione a tutti gli effetti. Quindi ma chennesai…
La morale, quando arriva, è desolante: la quarta dimensione è il Tempo. La quinta, surprise surprise, è l’Amore. Ma perché fermarsi alla quinta dico io: la sesta è l’Amicizia Che Continua Dalle Medie, la settima è ‘na Scopata de Quelle Belle, l’ottava è il Sorriso di un Bambino. La nona è un Antropocentrismo Svilente Compresso in Quasi Tre Ore.
Domandone: c’era bisogno di questo film dopo Tarkovskij e Kubrick? No. E dopo Gravity? Neanche.
Il film io l’ho visto in lingua originale con i sottotitoli in due lingue che non conosco: francese e fiammingo. Questo ha contribuito a farmi sentire molto colto e raffinato ma ha reso l’esperienza, probabilmente, molto più frustrante del normale. In più il bisnonno che viene dal futuro di McConaughey parla con un accento texano col fischio che mi ha distratto abbastanza. Quindi forse oh: è un capolavoro e io non ho capito niente.
Del resto, se la quinta dimensione è l’Amore (sarà contento Dante), tutto può essere no? Ma chennesai….