L‘Atac non è l’azienda del trasporto pubblico di Roma. L’Atac è un archetipo, elemento primigenio e primitivo da cui promanano tutte le sofferenze e i disagi di chi vive nella Città Eterna.
L’inefficienza, i buffi, le parentopoli, i buchi, le buche, i CEO, le autocombustioni hanno fatto di Atac, nel tempo, un feroce strumento del Capitale, attraverso il quale le periferie sono separate dal Centro, le opportunità culturali e sociali di Roma sono rinchiuse in camere stagne, non si dà alle classi sociali e perfino alle culture la possibilità concreta, reale quale può esserlo una strada percorribile, di comunicare tra loro e nelle due ore incagliato sulla Togliatti alle 7.45 del mattino ti sei già portato avanti con l’alienazione che ti aspetta a braccia aperte a lavoro, poi di nuovo sulla Togliatti, poi nella tua misera inutile vita fatta di consumi e di 706 che arriva dopo aver saltato due corse.
Non è astratto pensare al trasporto pubblico come a uno strumento di uguaglianza sociale, un Diritto e una rimozione di tutti quegli ostacoli di merda che continuiamo a porre tra classi economiche, tra culture, tra colori di pelle, tra generazioni. Il vero ruolo sociale del trasporto pubblico è qualcosa su cui il cittadino romano è poco abituato a riflettere, quindi finisce tutto in barzelletta o si spegne come un cerino dopo una sana pletora di bestemmie.
Una grande opportunità per parlare concretamente di trasporto pubblico è stata in parte sprecata perché, a una settimana dal referendum dell’11 novembre sul trasporto pubblico romano, circolano a fatica immagini, banner, qualche articolo sparuto attraverso i quali i romani stanno lentamente iniziando a porsi qualche domanda, la prima delle quali è: quale referendum?
Quale referendum?
I motivi per cui le persone sono a conoscenza di questo referendum come della fluidodinamica computazionale sono da ascrivere a diversi fattori, molti dei quali confluenti nella persona di Virginia Raggi e della giunta pentastellata. I 5Stelle Romani, amanti della democrazia diretta, devono aver avviato una campagna informativa piuttosto silenziosa, diciamo inconscia, forse simbolica non so, perché dell’esistenza di questo referendum non è consapevole quasi nessuno. Circostanza incresciosa perché, moralmente e istituzionalmente, spetterebbe al Comune la comunicazione ufficiale su un referendum che chiama in causa direttamente i suoi cittadini.
La ragione di questa latitanza comunicativa, proprio dei 5Stelle e di Virginia che su Facebook annuncerebbe in pompa magna anche la rimozione delle doppie punte dallo schnauzer di suo zio, è in sostanza la contrarietà della giunta capitolina a questo referendum, promosso dai Radicali. Le sotto-ragioni sono due: la Raggi ha prolungato la concessione ad Atac fino al 2021 e proprio a luglio il Tribunale fallimentare di Roma ha finalmente ammesso Atac al Concordato preventivo, agitato dalla Sindaca come prova della sua battaglia per risanare l’azienda. Molto in breve: il concordato è una procedura attraverso la quale un’azienda in crisi può portare alcune prove (come un piano industriale) per convincere i creditori a non mettere mano al trincia-dita.
La vicenda ricorda un po’ Renzi che fece di tutto per insabbiare il referendum sulle trivelle perché contrario alle sue politiche. Comportamento quasi scontato per il piddì, ma Virginia?
Cattiva Virginia.
A proposito di PD: la posizione ufficiale, pur con qualche (surprise surprise!) distinguo, è per il SI.
Menzione a parte per Potere al Popolo che, pur essendo per il NO, continua a informare i suoi, anche ricorrendo a trucchetti un po’ pietosi come “Renzi voterebbe SI al referendum su Atac”, a commento di un post su Facebook che riporta la testimonianza di un sindacalista dell’azienda di trasporti fiorentina, che venne messa a gara da Renzi qualche anno fa.
Ma procediamo con ordine. Quali sono i quesiti?
Quali sono i quesiti?
I quesiti del referendum sono due. Il primo: “Volete voi che Roma Capitale affidi tutti i servizi relativi al trasporto pubblico locale di superficie e sotterraneo ovvero su gomma e rotaia mediante gare pubbliche, anche ad una pluralità di gestori e garantendo forme di concorrenza comparativa, nel rispetto della disciplina vigente a tutela della salvaguardia e della ricollocazione dei lavoratori nella fase di ristrutturazione del servizio?”.
Il secondo: “Volete voi che Roma Capitale, fermi restando i servizi relativi al trasporto pubblico locale di superficie e sotterraneo ovvero su gomma e rotaia comunque affidati, favorisca e promuova altresì l’esercizio di trasporti collettivi non di linea in ambito locale a imprese operanti in concorrenza?”.
Se avete saltato i due quesiti perché già al “volete voi che Roma Capitale” la noia vi ha bloccato l’ossigenazione dei neuroni, vi riassumo così il primo quesito, che è l’oggetto del contendere: si vuole mettere a bando il trasporto pubblico.
In molti mi avete chiesto (e per “molti” intendo sette) un consiglio su come votare al Referendum. Ma su questo blog si fanno recensioni, quindi darò pareri tranchant e assolutamente arbitrari su entrambe le posizioni. Poi farete voi. L’importante è andare a votare, ma non perché la democrazia diretta e quelle cagate lì: per fare incazzare la Raggi.
Il SI
La prima cosa da sapere sul SI è che il referendum è consultivo e non vincola in alcun modo l’Amministrazione Capitolina. Eh lo so è brutto ma lo ha detto anche la Raggi, in una delle tre volte in cui, obbligata da una domanda diretta, è stata costretta a citare il referendum. Diciamo che se passasse il SI assisteremmo all’ennesima manata in faccia che la realpolitik fa al MoVimento, che già ne sta prendendo un bel po’ su molti fronti (vedi la questione TAP). Inoltre rappresenterebbe un notevole bastone tra le ruote per le politiche di risanamento di Atac già in atto, che hanno comportato la proroga della concessione all’azienda di trasporto e l’avvio della procedura di concordato.
In ogni caso il SI darebbe impulso al Comune per mettere a gara il trasporto pubblico, conservando le funzioni di amministrazione, controllo e indirizzo del servizio affidato. Non si tratterebbe di una privatizzazione ma di una liberalizzazione. La gara vedrebbe sicuramente vincitore un consorzio o un raggruppamento di soggetti (difficile immaginare un solo soggetto in grado di accollarsi il carrozzone Atac) che avrebbero in gestione il servizio.
Trattandosi di una gara pubblica, non sarà difficile per i sindacati far riassorbire i lavoratori, quindi il rischio di perdita di posti di lavoro, almeno nell’immediato, è scongiurabile. Il problema subentrerebbe ad affidamento avviato, dal momento che il nuovo affidatario potrebbe condurre politiche di tagli e risparmi cosa che, essendo un privato, non sarebbe affatto strana.
In Italia abbiamo già un esempio di trasporto pubblico messo a bando: Firenze, come sopra citato, nel 2012 affidò i trasporti pubblici locali tramite bando a un’Associazione Temporanea di Imprese private. Di Ataf oggi si lamentano un po’ tutti, dai lavoratori agli utenti con infuocate recensioni su TripAdvisor. Certo, è anche vero che la lamentela nel Belpaese non può avere valore probatorio.
Riassumendo: se vince il SI il Comune potrà bellamente fottersene, ma dovrebbe tenerne conto, e comunque si aprirebbe una breccia almeno culturale per la messa a bando del trasporto pubblico romano. Ciò non significa privatizzare ma far passare la gestione di bus e metro a un nuovo soggetto, che potrebbe gestirlo peggio, uguale o meglio di Atac.
Il NO e l’astensione
Se dovesse vincere il NO, così come se non si raggiungesse il 33% che è il quorum per questo referendum, la situazione rimarrebbe esattamente così com’è. Anzi: la giunta pentastellata avrebbe gioco facile nel sostenere le proprie iniziative, che comunque in qualche modo sono orientate a recuperare la gestione pubblica dei trasporti romani.
La situazione di Atac la conosciamo tutti negli effetti, non è difficile chiudere gli occhi e immaginare che chiunque, anche un branco di cani randagi che spingono una slitta inseguendo una salsiccia tenuta davanti al loro muso con una canna da pesca, riuscirebbe a garantire ai romani un trasporto più dignitoso. Il problema è che la liberalizzazione non garantisce di per sé il miglioramento del servizio: semplicemente produce un cambiamento, che oltretutto, politicamente parlando, non è neutro.
I sostenitori del NO puntano il dito, oltre che su Firenze, su Roma TPL, azienda privata che gestisce parte del trasporto pubblico nelle zone periferiche dell’Urbe. Il paragone con TPL non è esattamente aderente alla situazione che prefigura il SI al referendum, dal momento che TPL agisce in subappalto, ma ha comunque vinto una gara, ogni tanto non paga i dipendenti, non ha autobus sufficienti per garantire il servizio, insomma fa cagare tanto quanto Atac. In aggiunta, TPL utilizza il parco autobus di Atac, quindi insomma de che stamo a parlà.
Le ragioni del NO, tuttavia, oltre a sgonfiare un po’ l’orgasmo taumaturgico dei Radicali, secondo i quali liberalizzare equivale in automatico a migliorare, mettono a fuoco un altro aspetto, che è un poco più politico e aprioristico: non si liberalizza un bene pubblico, un bene comune. Non a caso i sostenitori del NO sono quelli che fanno più fatica in generale, in assoluto, ad accettare l’idea della liberalizzazione in sé, incapaci di affrontare il tema in maniera laica.
Del resto molti di noi nel 2011 votarono SI al primo quesito del referendum sull’acqua pubblica: il quesito recitava, più o meno “vuoi abrogare l’articolo che consente alle amministrazioni locali di mettere a bando i servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, anziché ricorrere all’affidamento diretto con il sistema in house?”. Vinse il SI, cioè in massa decidemmo che l’acqua, il trasporto pubblico e lo smaltimento dei rifiuti dovesse essere affidato in house, così come Roma ha affidato ad Atac il trasporto pubblico.
A essere sinceri, la differenza è che allora si parlò quasi esclusivamente di acqua, e che la gestione dell’acqua non era neanche lontanamente paragonabile allo sfascio devastante di Atac che, by the way, rischia il fallimento se il concordato non va a buon fine.
In conclusione
Se ci volessimo liberare della retorica elettorale, del dibattito sui beni comuni, del futuro dei nostri bambini e dovessimo essere inutilmente cinici e asciutti come in uno degli sproloqui di Vittorio Feltri, dovremmo sostenere che questo Referendum non solo è inutile perché semplicemente consultivo e perché la Sindaca di Roma ha già dichiarato che se ne sbatterà il cazzo, ma anche che non arriveremo mai al quorum di un terzo degli aventi diritto, perché è troppo tardi e perché chi ha voluto insabbiare l’informazione su questo strumento di democrazia partecipativa ha vinto nel suo intento. Siccome chi ha vinto in questo disegno malvagio è la giunta comunale a cinque stelle, e siccome questo referendum non vincola in alcun modo l’amministrazione comunale, verrebbe quasi da dire di votare SI.
Io credo che voterò NO.
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Voto (a Virginia Raggi): zero. Cattiva Virginia Raggi
Voto (ai pori radicali che continuano a promuovere cose nel disinteresse generale): 6 politico
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