Fahrenheit 11/9 (Michael Moore, 2018)
Ovvero: ciò che accade se un narcisista ne descrive un altro
Sul sito di La7 è disponibile in streaming l’ultimo lungometraggio di Michael Moore, il cineasta d’inchiesta più celebre e chiatto d’America. Moore è giunto alla ribalta mondiale per quello che rimane a tutt’oggi il suo capolavoro, Bowling for Columbine (2002), pseudo-documentario che ha di fatto inventato un linguaggio la cui forza espressiva egli stesso si sforzerà di eguagliare nei suoi lavori successivi, raccogliendo negli anni molto pubblico e molti nemici, soprattutto tra i repubblicani americani. Schieratissimo, fazioso, ironico, emotivo, paraculo, scorretto, Moore ha ormai creato un marchio, che di tanto in tanto imprime su film che assomigliano a documentari, montati con una tecnica inconfondibile per sostenere una tesi che è più o meno sempre la stessa: i Repubblicani fanno cacare.
I suoi film mischiano filmati di repertorio e situazioni create ad hoc, con un utilizzo delle musiche, del montaggio, degli effetti (come il rallentatore) che sembrano appartenere più al linguaggio della messa in scena drammatica che al documentario. Il risultato complessivo, almeno nei suoi lavori più riusciti, è la sensazione di muoversi in un racconto in cui sono dosate con precisione le componenti tragiche, comiche, ridicole, critiche, politiche, fino a giungere ad una conclusione “pedagogica” che appare incontestabile tanto è posizionata bene nella sinfonia narrativa. In tutti i suoi lavori sono poi presenti incursioni dell’ingombrante persona di Moore (che ormai assomiglia a Jabba di Star Wars) nel Paese Reale, a caccia di politici corrotti o storie di sofferenza privata da raccontare con uno stile d’inchiesta aggressivo e più vicino all’attivismo che al documentarismo.
Lo schema è riprodotto paro paro anche in Fahrenheit 11/9, reportage romanzato sulla ancora oggi inspiegabile Presidenza Trump.
La prima parte del film strizza subito l’occhio ai fan, consegnando loro una copia aggiornata dell’inizio dell’altro Fahrenheit di Michael Moore, quello bello: come nel 9/11, abbiamo immagini di repertorio di un Presidente Repubblicano che sta sul cazzo a Moore (Bush Jr nel film del 2004, Trump in questo), infilzate in un montaggio nervoso che pompa sapientemente il dramma. In entrambi i Fahrenheit si mette in dubbio la legittimità del voto, solo che nel 2004 Moore si sbilanciava ventilando brogli, qui invece si limita a criticare il sistema elettorale americano basato sui Grandi Elettori, che ha di fatto generato il paradosso di aver portato alla vittoria il candidato con meno voti. Questa cosa la conoscevano tutti già nel 2016, e l’occasione mi è gradita per venire al primo sostanziale limite di questo film: Moore, nonostante giochi molto bene a fare se stesso, perde qualcosa probabilmente in tempismo, o in puntiglio, o ancora nella sfacciataggine con la quale in passato sosteneva tesi anche non definitive ma potenti, generanti dialettica, come quelle sull’11 settembre nel primo Fahrenheit. Qui, nel descrivere la demenziale ascesa di Donald J. Trump, Jabba non morde, non bluffa, non si esibisce nei suoi soliti trucchetti di magia, probabilmente per paura di finire triturato e banalizzato nel gorgo delle voci contro il Presidente USA più divisivo di sempre. La storia che viene restituita è quella di un Trump candidatosi per gioco, che poi sale sul palco da Presidente trovo in volto, non contento. La medesima tesi era già stata presentata da Moore nel 2016, nello spettacolo di stand-up comedy poi diventato il film “Michael Moore in Trumpland”. Sempre nel 2016 veniva mandata in onda la stagione 20 di South Park, nella quale Parker e Stone affidavano al personaggio di Mr Garrison, ex maestro delle elementari razzista e pervertito, l’onere di parodiare Trump dipingendolo come un bullo di paese che si candida per gioco e poi resta schiacciato da un’ondata di consenso che sembra muoversi indipendentemente da lui. Nella prima puntata della stagione (Member Berries) Garrison-Trump, in preda al panico a causa dell’inspiegabile supporto popolare, tiene un discorso durante un dibattito con Hillary Clinton, pregando i suoi sostenitori di votare per lei. Clinton, per tutta risposta, non capisce di avere la vittoria in tasca e si limita a ripetere ottusamente le imbeccate dei suoi spin doctor. Paragonato alla gelida stupidità della candidata democratica, il discorso disperato di Trump scavalca il significato delle sue parole (“non votate per me”) e travolge il pubblico perché suona sincero ed emotivo. L’effetto di quel finto dibattito è raggelante, soprattutto se letto col senno di poi e l’intera ventesima stagione di South Park andrebbe mandata in onda a ripetizione a reti unificate per scardinare via dalla testa della gente l’attrazione per il populismo. Moore in questo film di fatto ricalca la stessa tesi (sua, di Parker e Stone e di praticamente chiunque nel 2016) con due anni di ritardo, scheggiando due delle sue frecce migliori: l’innovatività e l’effetto sorpresa.
Del resto Trump e il trumpismo appaiono quasi sullo sfondo del racconto, tutto incentrato sulle colpe dei democratici nel non aver intercettato la “naturale propensione a sinistra degli americani”, che non si è tradotta in voto perché l’atteggiamento ultra-capitalista dei democratici avrebbe provocato un’astensionismo che, secondo Moore, ha consegnato la vittoria a Trump. Una tesi tutta da dimostrare ma che Moore tratta superficialmente, dimenticandosi di dare spazio all’ondata di suprematismo bianco, razzismo, stronzaggine e rabbia imperante nelle classi popolari molto povere e molto white degli Stati Uniti, che hanno portato un tycoon spudorato, sessista, razzista e ignorante sullo scranno più alto del Mondo.
Più sentita e approfondita appare la vicenda della crisi dell’acqua a Flint, città natale di Michael Moore già protagonista del suo primo documentario, Roger&Me (1989). Di Flint si parla in una lunga digressione anche nel primo Fahrenheit di Moore, dunque era filologicamente obbligatorio parlarne anche in quest’opera speculare. Il blocco sulla città più sfortunata del Michigan qui dura parecchio, forse troppo, al punto che per un po’ non è chiaro cosa ci faccia in un film contro Trump, nonostante i tentativi di associarlo al Governatore Rick Snider. Poi sbuca la terribile conferenza stampa di Obama, durante la quale il Presidente della Speranza prende a bere acqua contaminata di Flint per dimostrare che non c’è alcun pericolo e si ritorna stancamente alla tesi di partenza: è colpa dei Democratici che non stanno alimentando alcuna politica di sinistra dunque, verrebbe da dire, alla gente risulta più semplice votare direttamente il tizio di destra se l’alternativa è un democratico che lo scimmiotta male.
Ci dovrebbe ricordare qualcosa.
Poi verso il finale arriva il solito proclama educativo, al quale Moore ci ha abituati fin dagli inizi: un soliloquio accompagnato da immagini evocative stavolta talmente fiacco che lo stesso regista a un certo punto lo interrompe, dimostrando di essere consapevole dei rischi nei quali il suo stesso brand lo fa incorrere.
Dopotutto nello stesso titolo del film, che è un’autocitazione, sta la chiave di lettura non solo di quest’opera, ma dell’opera omnia: nonostante i temi trattati, tutti proiettati oltre l’orbita dell’interesse collettivo, nei suoi film Michael Moore parla sempre di se stesso. Formula che spesso affascina e funziona (Bowling for Columbine, Fahrenheit 9/11, Sicko), quando lo sguardo del regista plana sulle vicende di cui parla con una giusta dose di pietas, un po’ meno (Where to invade next o questo Fahrenheit disgrafico) quando la mancanza di una linea chiara e ben messa a fuoco costringe Moore a pescare a piene mani da tutto ciò che ha fatto in precedenza.
Voto: 2 Mr Cilindro disegnati male e mezzo su 5
/5
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