Still Recording

Still recording (Ghiath Ayoub, Saleed Al Batal, 2018)

Quest’anno a Venezia, per la precisione alla Settimana Internazionale della Critica, è passato e ha vinto un documentario siriano (a dirla tutta la produzione è: Siria, Libano, Qatar e Francia) girato da due registi appena trentenni. Armati di telecamera a mano, hanno seguito tra il 2011 e il 2015 un manipolo di guerriglieri appartenenti a uno dei tanti gruppi armati contro il regime di Assad in Siria. Quale migliore occasione per trascorrere un sabato sera all’insegna delle badilate in faccia e del senso di colpa per essere un occidentale di merda, il cui problema più grave è al massimo dove minchia parcheggiare di sabato sera in zona San Giovanni.

Il film si apre su una lezione di cinema tenuta da uno dei due registi per un gruppo di aspiranti reporter di guerra, mettendo subito in crisi una delle possibili chiavi di lettura di un documentario di questo tipo, oltretutto la più banale: quella delle macerie, dei morti, di Assad, dell’ISIS. Elementi che non mancheranno ma che con questa apertura vengono come collocati in una dimensione narrativa insolita, fuori dall’area dell’iper-racconto dei media di massa che finiscono per sterilizzare e rendere digeribile anche l’orrore della guerra. Nella sua lezione Saeed, mostrando una sequenza dal kolossal americano “Underworld”, puntualizza che per giungere a quei livelli tecnici la produzione ha speso il denaro che basterebbe a “mandare all’università metà dei ragazzi di Douma”, ma non assume una posizione politica rispetto a questa spesa, anzi invita i suoi allievi a cercare di arrivare a quel livello per raccontare con le immagini ciò che li circonda.
In questo modo Saeed ci mostra da subito, prima ancora che inizi il documentario, chi e cosa c’è dietro alle immagini che vedremo di lì a poco, da quali intenzioni, aspirazioni, desideri, paure è mossa l’inquadratura che indugerà per quasi due ore su tutto l’orrore di cui l’Uomo è capace.

Poi si apre lo sguardo sulla guerra, e vediamo i calcinacci, i morti, il sangue impolverato e questo esercito di ragazzi armati fino ai denti, belli e sorridenti come i vent’anni, con la loro paura di morire e una lucidità inspiegabile ma indispensabile per prendere la mira da un fucile di precisione. La telecamera ce li racconta inseguendoli un po’ ovunque, dal buon punto di osservazione dei carri armati di Assad dietro un buco nel muro ad una festa a bordo piscina con alcol e canne (e qui compare, improvvisamente, una donna in questo film di maschi che ammazzano e si ammazzano). Questi ragazzi si abbracciano, giocano, ballano, si sfottono e questo manda in frantumi l’immagine della guerra come siamo abituati a raccontarcela, quella totale, assoluta, che non lascia spazio a nient’altro. La vita qui, banalmente ma violentemente, continua come ci spiega un ragazzo inquadrato da solo in mezzo alle macerie mentre fa esercizi di riscaldamento. Interrogato sulle ragioni del suo insistere nel praticare lo sport in mezzo alla devastazione, un po’ seriamente un po’ per gioco risponde che se dovesse morire, sarà un “martire dello sport”. In questa vita che continua fiera e arrogante in mezzo ai cadaveri spappolati si nasconde uno dei messaggi più violenti del film, che è la coesistenza di amore e morte nell’Uomo, la spiazzante inaccettabile coerenza tra l’omicidio e l’umanità. Questa lezione ci era già stata impartita da Stanley Kubrick in Full Metal Jacket (1987), non a caso un altro film di guerra che forse più di qualunque altra opera obbliga a comprendere e perfino a risolvere questa contraddizione. A differenza di Full Metal Jacket, qui non vedremo mai il nemico, però lo sentiremo in un paio di sequenze che, insieme a poche altre, conferiscono al film la gravità di un capolavoro.
In queste due sequenze vediamo uno dei combattenti seguiti dai registi alla radio con un soldato regolare di Assad. I due si odiano, il combattente definisce Assad “un cane”, eppure chiacchierano sulle rispettive posizioni. Qui non importa tanto cosa si dicono (entrambi sono convinti di aver iniziato pacificamente e di essere stati costretti alla violenza dall’altro), conta piuttosto la composizione della scena, col ragazzo a sinistra e la radio a destra, inghiottiti in un buio segreto, denso, clandestino. I due sembrano quasi dibattere davanti a una birra, il soldato di Assad non è inquadrato ma la sua voce gracchiante incombe sull’intera scena, ogni tanto rimane in silenzio assediato dall’insistenza del giovane guerrigliero, quasi possiamo vederlo al muro. E’ evidente da quale parte stiano i registi, il film prende posizione dall’inizio alla fine, ma questa sequenza quasi si eleva rispetto ai fatti, alla morte, all’odio perché ci mostra due uomini che si spiegano, si dispiegano.  Anche qui viene illustrata un’apparente dicotomia, e i due elementi possono addirittura definirsi “Il Bene” e “Il Male”, ma anche in questo caso la dicotomia sembra diffondersi e sfumare in una chiacchierata colloquiale.
Un’altra scena dalla potenza devastante mostra il cecchino più bravo del gruppo spiegare alla telecamera come convivano in lui la consapevolezza di essere un assassino e il dolore nel procurare la morte a un altro uomo. Dopodiché squilla il telefono e prende a parlare con la madre, mentre finisce di caricare il fucile e prendere la mira.

Poi arriva il finale devastante, inatteso, intenso, crudele, ho finito gli aggettivi, non ce ne sono, forse non ce ne sono mai stati.

“Still Recording” è uno di quei film che ti cambiano un po’, è davvero complicato conservare le proprie posizioni, le proprie idee, il proprio immaginario mentre si guardano queste immagini tremolanti, questo piccolo gioiello di umanesimo camuffato da reportage di guerra. Sappiamo che la dialettica mainstream “Assad cattivo – guerriglieri buoni” non regge, sappiamo che tra i gruppi armati contro il regime si è celata e si cela l’ISIS, sappiamo che Assad è un criminale di guerra, ma tutto questo lo sappiamo da qui, dal nostro parcheggio conquistato a suon di bestemmie in zona San Giovanni.
Laggiù, in quell’immensa distesa di calcinacci la vita prosegue, impolverata, insanguinata, assediata, in un posto in cui non si può smettere di fare sport, spruzzare sui muri le proprie idee, bere e farsi le canne, in un posto in cui anche i documentaristi muoiono sotto le bombe, in un posto in cui parli con la mamma e spari in testa a qualcuno. Laggiù c’è spazio per questo e poco altro, quindi solo la tua posizione conta, solo il tuo presente conta, contano solo i tuoi splendidi vent’anni. E film come questo servono quasi tanto quanto serve la Pace.

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