Mulholland Drive (David Lynch, 2001)
Recensire Mulholland Drive è uno dei gesti più avventati e inutili che un cervello umano possa compiere. L’opera è talmente complessa e allo stesso tempo istintiva, precisa e vaga, potente, millimetrica e boh, tirate fuori voi altri aggettivi altisonanti, che risulta probabilmente il film mainstream più importante del XXI Secolo. Mainstream quanto può esserlo un film disponibile su Netflix, anche se vedere il capolavoro di Lynch nel catalogo Netflix fa un po’ l’effetto di un mozzicone di sigaretta spento su una gomma da masticare rosa rinsecchita che giace in una pozza di vomito circondata da una cucciolata di gattini bianchi super carini.
Mulholland Drive è uno di quei rarissimi film-totali che riescono a sfruttare il mezzo cinematografico in ogni suo possibile aspetto, che riempiono il cinema senza lasciare neanche un filo d’aria, che invadono tutto dalla letteratura, alle arti figurative, alla musica insomma, cazzo, è uno dei film più belli mai realizzati.
Attenzione che “bello” non vuol dire solo “bello” e questa trappola semantica un po’ infame beccheggia nel flusso narrativo del film, che si riavvolge a mezz’ora dalla fine dopo che è stata aperta una scatolina blu.
Telegraficamente, la storia: una ragazza ingenua e piena di sogni arriva nella tentacolare Los Angeles alla ricerca di fama. Una misteriosa donna molto bona rimane vittima di un incidente su Mulholland Drive e, priva di memoria, si rintana in casa della ragazza ingenua di cui sopra. Le due si piacciono. Ma è un film di Lynch, quindi…
Il “ronzio” lynchiano
Come accade per altri registi voluminosi e fuori come parapetti pericolanti (Von Trier sto parlando con te), è davvero difficile guardare un film di Lynch prescindendo dalla sua persona, dalle sue idee espresse fuori e dentro i suoi film, che oltretutto si rimandano l’uno all’altro attraverso simboli che il regista neanche modifica (il nano, il pavimento a scacchi, gli anni 50). Un film di Lynch non è un film, ma è proprio un film di Lynch, quindi aver visto almeno Velluto Blu aiuta se non altro a non perdersi in stato del tutto confusionale nei corridoi preconsci nei quali, per le due ore e mezza di Mulholland Drive, l’occhio socchiuso del regista scarrella senza pietà.
Più di qualcuno avrà visto il film e non ci avrà capito nulla, preda del proprio bisogno di identificare i simboli e decifrare gli indizi che effettivamente sono sparpagliati un po’ dappertutto, ma sfido chiunque a sostenere di averlo trovato noioso. Certo, è molto probabile che in giro ci siano persone che hanno trovato Mulholland Drive noioso, così come ci sono persone che affogano i coniglietti, ma qui non voglio occuparmi né degli uni, né degli altri.
Mulholland Drive è un film che va sentito, toccato, annusato e poi forse, ma non è neanche così necessario, visto. E non lo dico perché è una cosa figa e fricchettona da dire, il film è girato, fotografato, musicato, diretto, scritto come se lambisse una specie di quarta dimensione, resa in forma di prodotti delle funzioni mentali, il ronzio appena percettibile di quel lavoro di ricostruzione della realtà che il cervello compie continuamente, cioè roba che Nolan ti devi mettere in fila col numeretto.
Per questa ragione il livello propriamente narrativo del film, che pure è presente e anzi, appare assai più lineare che in altri lavori del regista, sembra essere una risultante, come un insieme di tracce lasciate da qualcosa d’altro, più o meno come quando si passa una matita su un foglio sotto il quale è stata messa una moneta. La storia, la vicenda e perfino l’interpretazione sul possibile significato del film sono elementi in rilievo di qualcosa di più grande, anzi enorme, che ribolle sotto, tema questo molto caro a Lynch.
Ciò che si vede
Il livello più esposto del film è sorretto su tre elementi principali: la fotografia, la musica, l’interpretazione degli attori. La fotografia è un grande classico lynchiano, questa specie di illuminazione da soap opera che quasi appone un ulteriore strato tra lo schermo e lo sguardo, una iper-finzione che ovatta l’esperienza visiva e avvolge tutto nella menzogna. Il trucco, cui Lynch ci ha abituati, consiste poi nell’effetto provocato dall’improvviso svelamento dell’orrore che si cela dietro quella finzione, e ad essere squarciata per prima è proprio la fotografia. Il modo in cui viene illuminata e letteralmente “colorata” la messa in scena prima dello svelamento dell’elemento tragico è fondamentale per Lynch, si pensi alla fotografia del citato Velluto Blu, nella cui festosa inconsistenza gli elementi disgustosi e disorganizzati (come un orecchio in putrefazione) impattano crudelmente, o ancora ai toni caldi, quasi in fiamme di Twin Peaks in mezzo ai quali il bluastro del mare il giorno del ritrovamento e del volto di Laura Palmer sembrano stonare ancora più del dovuto.
Altro strato esterno sono le musiche di Angelo Badalamenti, che compare nel film nei panni di un sinistro e disgustoso produttore cinematografico che beve un caffè e lo sputa su un tovagliolo. La colonna sonora e il contrappunto musicale alle scene sono qui la versione melodica della fotografia: tappeti di synth che neanche nei più deliranti telefilm anni 80 affogano le immagini in un’atmosfera artefatta e allucinata. Il tema musicale risuona un po’ ovunque e nei momenti di maggior tensione drammatica arriva a stordire.
Infine, l’interpretazione degli attori. Non tanto la storia in sé, la sceneggiatura, quanto proprio l’interpretazione rappresenta il terzo pilastro che sorregge la parte più esposta del film, quella da cui è possibile ascoltare il “ronzio” che apre la stanza di Velluto Blu, o il sacco di plastica di Twin Peaks o ancora, qui, la scatola. Un’interpretazione spicca su tutte, ed è quella dell’allora semi-sconosciuta Naomi Watts, motivo per cui è assolutamente consigliato vedere il film in versione originale. Nella prima parte del film, che è quella che potremmo definire della patina, del velo, insomma della menzogna, la Watts sostiene un personaggio assurdo, fatto di moine e sorrisi forzati e una buona dose di “loserism” che ne fanno un prototipo incredibile e credibile allo stesso tempo. In quei sorrisi, in quel tono di voce zuccherino, in quel collo tiratissimo si comincia a creare un contro-racconto che spalancherà più avanti le porte dell’inferno.
Ciò che non si vede
Il 90% di Mulholland Drive non è visibile. Per questo motivo, quando uscì nel 2001, fu praticamente impossibile raccontarlo alle persone, in modo da invogliarle a vederlo. All’uscita si puntò molto su quello che è probabilmente l’unico elemento raccontabile del film, vale a dire l’amore tra le due protagoniste. Il bacio tra Laura Harring e Naomi Watts fece scalpore nel lontano e pruriginoso 2001 e a distanza di 17 anni, dopo il limone in diretta nazionale delle Tatu (Festivalbar, 2002) e le shockanti e interminabili smanacciate di La Vie d’Adèle (Abdellatif Kechiche, 2013), oggi non scandalizzerebbe neanche un personaggio manzoniano. Certo, quell’amore inzuppato nell’atmosfera inquietante di Mulholland Drive, in quel vibrare continuamente segnali di pericolo, supera il significato e va oltre l’espressione fisica dell’amore tra le due donne, che è infatti raccontata sbrigativamente, perché conta molto meno di ciò che non si vede.
Ciò che non si vede è un flusso continuo emotivo emotigeno e fastidioso, un materiale denso e scuro che cola lentamente, un senso di allarme che circonda l’appartamento in cui si rifugiano le due donne, che invece rappresenta per loro un rifugio, un luogo caldo e segreto in cui esprimere la loro intima e, per dirla con le parole di Aldo Carotenuto, segreta simmetria. E non è un caso citare Jung parlando di Mulholland Drive.
Tuttavia non hanno senso le interpretazioni o le spiegazioni, che pure ci sono e se ne possono trovare a decine sul web: qui si parla di ciò che la narrazione svela lentamente anzi, più che svelare è come se si spellasse, se la realtà gradualmente prendesse a squamare, mostrando un nuovo orrido tessuto. Esistono elementi di orrore puro nel film, che vengono alla luce proprio perché il tessuto esposto della narrazione viene via, come la pelle da un cadavere, e questo elemento orrido, disgustoso, folle e violentissimo squassa il film soprattutto nel finale che è uno dei più efficaci deliri mai rappresentati in forma visiva.
Ciò che non si vede di Mulholland Drive vibra nervoso sotto ogni inquadratura, ma ogni tanto emerge in modo violento: l’incredibile scena del “sogno raccontato” tra i due uomini nel diner ne è un esempio, o ancora la sequenza del provino di Betty, ovvero il momento in cui Lynch, tramite la recitazione di Naomi Watts, inizia a insinuare nella testa dello spettatore che qualcosa in questa storia proprio non va.
E sulla recitazione, sul fingere e sulla menzogna ruota la lunga digressione nel night club “Silencio“, in cui tutto è registrato, compresa la struggente “Llorando” cantata sul palco da una donna che sviene, lasciando proseguire il playback: quella finzione, quella simulazione annunciata fin dall’inizio, non impedisce comunque alle due protagoniste di commuoversi, di provare qualcosa di autentico, in quel momento, in quella scena.
Viene dunque alla luce qualcosa di irrappresentabile, che è una sensazione, è una colpa, è una scelta che tormenta tutti i personaggi, è la necessità di fingere, di non mostrare la verità fino a quando non viene aperta la scatola blu, e ricomincia il film, a mezz’ora dalla fine.
Sì, va bene, ma che c***o vuol dire?
La cosa più scema da fare con un film del genere è fornire una spiegazione. Anche perché ne sono state fornite a decine, come accade con tutti i film enigmatici che volutamente non forniscono tutte le risposte. Sul piano puramente e banalmente narrativo, che è un livello che sta anche sopra le parti esposte di cui si è parlato prima, il film ha una sua spiegazione, rintracciabile negli indizi che Lynch sparpaglia in varie inquadrature o sequenze. Essendo Lynch, alcuni sono indizi buoni, altre sono false piste (come la recitazione della Watts nella prima parte del film). Se proprio non ce la fate a rimanere sospesi in questo incubo anti-narrativo, a questo link trovate una spiegazione possibile del film. Certo, che palle.
Mulholland Drive, si diceva all’inizio di questa inevitabilmente lunga recensione non richiesta, è forse il film più importante di questo nuovo Millennio, che pure annovera titoli come La Città Incantata (Miyazaki, 2001), Volver (Almodovar, 2006), I Tenenbaum (Wes Anderson, 2001), Melancholia (Von Trier, 2011), tutti film che parlano d’altro da ciò che si vede, che abbracciano dimensioni invisibili e puntano a spiegare l’Uomo e l’Universo. Ciò che pone Mulholland Drive almeno un centimetro avanti ad altre opere realizzate in questi ultimi 18 anni (e probabilmente avremmo agio nell’andare anche più indietro nel tempo) è il coraggio sfacciato col quale Lynch si rifiuta di scendere a compromessi prima di tutto narrativi. Questo film è preferibile vederlo lasciandosi andare, come per fare il morto a galla, seguendo una corrente che pure sappiamo essere minacciosa e pericolosissima; un esercizio molto difficile perché lo stesso Lynch piazza lungo la strada elementi di narrazione che sembrano suggerire una chiave di lettura, ma il buon David li fa e li disfa, e in questo senso sembra agire proprio come un meccanismo mentale, come una funzione pre-cognitiva. Che sia l’agire del sogno o delle pulsioni che governano la nostra quotidianità e perfino decodificano la realtà sensoriale che percepiamo, il processo con cui Lynch infila elementi simbolici, li rende coerenti con il racconto e poi li smantella è impressionante: in questo si piazza al fianco di Buñuel per l’efficacia con la quale porta sul grande schermo il materiale inconscio e onirico. A differenza di Buñuel, che impiega il linguaggio del sogno in senso politico, chiamandoci in causa come collettività, Lynch è più interessato a corroderci l’anima, a mettere in discussione proprio la realtà sensoriale nella quale l’Uomo quasi non esiste, anzi non conta. Dunque è tutto ricostruito, ri-prodotto, come a Hollywood. Se ne può dedurre che il cinema, nella sua compiuta e dichiarata menzogna, è l’unica cosa vera, l’unica cosa che conta.