Dogman (Matteo Garrone, 2018)
ovvero: il canaro piccolo piccolo del nuovo cinema italiano “intimo e sociale”
L’ultimo film di Matteo Garrone è un film duro, denso, una mattonata lanciata sui vetri dell’anima, l’elegia disperata di una provincia crudele raccontata, impolverata e inquadrata come il set abbandonato di uno spaghetti western.
L’impronta della terribile vicenda del Canaro della Magliana può trarre in inganno e creare l’aspettativa di una crime story o di un thriller di maniera ma a Garrone piace sparigliare le carte, addensando per 100 minuti una storia che impiega un linguaggio intimo per parlare di temi collettivi. In questa definizione echeggiano due elementi classici del cinema nostrano, da una parte quello dell’impegno sociale degli anni 70 poi compresso nella minuta vicenda de Il Borghese Piccolo Piccolo (M. Monicelli, 1977), dall’altro il cinema “personal-politico” di Nanni Moretti che – piaccia o meno – ha fatto scuola, anche se Dogman ha più cromosomi in comune con Sulla Mia Pelle (A. Cremonini, 2018) insieme al quale potrebbe rappresentare il capostipite di un nuovo cinema italiano.
Questo cinema ha finito di studiare all’estero e sta applicando le preziose lezioni di ritmo e di scrittura a quello che ci è sempre venuto bene, vale a dire fotografare la realtà e lo Spirito del Tempo con un’onestà spiazzante che Sorrentino ti devi proprio scansare.
Come in Sulla Mia Pelle, anche qui abbiamo la macchina da presa fissa su una vicenda personale, intima, su un individuo e sul suo corpo che si trasformano gradualmente minuto dopo minuto, ed è proprio questo indugiare morboso sulla pressione che l’ambiente esercita sulle carni e sulle teste dei protagonisti a incrociare la dimensione collettiva e propriamente “politica” del film. Che si tratti delle botte dei Carabinieri e dell’indifferenza delle persone che hanno in custodia Cucchi (Sulla Mia Pelle) o delle vessazioni di Simoncino e della comunità che volta le spalle al canaro Marcello (Dogman), l’ambiente che circonda e opprime il protagonista finisce per diventare il centro del film, ripiegandosi indifferente sulle vicende personali fino ad annientarle.
Si sta raccontando di una società in cui la persona non conta più nulla, entrambi i film sono carrellate impietose su rapidissimi processi di annullamento di un’intimità, di una storia personale, di un diritto ad esistere. In questo Dogman si fa più sfacciato e trasferisce la storia di cronaca del Canaro ai giorni nostri, come a volerla assolutizzare strappandola dai titoli di giornale.
Per raccontare quest’Italia disintegrata dal bisogno di sopraffazione e dalla paura dell’altro Garrone utilizza alcune metafore efficaci: i cani (cani grossi da combattimento feroci e aggressivi e cani piccoli vittime da proteggere), gli spazi (questo “non-quartiere” fatto di case basse e sbeccate messe in fila, come in un western), le catene (con cui comunque il “cane grosso” è destinato a essere domato), fino alle scene sott’acqua che concludono la fotografia da acquario che illumina tutto il film, rendendoci spettatori impotenti e perciò complici delle sofferenze cui assistiamo.
Dogman è un film a rilascio lento, che mette alla prova lo spettatore nella prima parte in cui sparge su una superficie piatta e asettica i presupposti emotivi per la seconda: bisogna sopportare il personaggio di Marcello col quale Garrone non ci fa simpatizzare da subito, mostrandocelo tutto sommato complice del proprio aguzzino, qua e là amico, di un’amicizia perfino tenera. Poi capiamo cosa anima i comportamenti del canaro di Garrone, vale a dire il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di uscire dalla propria disperata condizione di solitudine e isolamento: raramente Marcello scappa da Simoncino, anzi lo cerca, lo chiama a sé, ne invoca le sevizie e questo contrasta con l’aspettativa di una vittima con la quale immedesimarsi, che porti lo spettatore a tifare per lei anche quando esploderà la violenza.
Ma non siamo di fronte al Borghese di Monicelli, né a Cane di Paglia (Peckinpah, 1971): Dogman non parla di vendetta e di giustizia privata ma dell’Italia (dell’Europa?) che siamo diventati, un branco informe e polverizzato di cani che difendono il proprio territorio, la propria sopravvivenza, ringhiando mordendo e sbavando. La solitudine e l’isolamento sono elementi narrativi centrali dai quali i personaggi non possono uscire, il dominio esercitato sull’altro serve solo a difendersi, quasi non se ne può fare a meno ed è qui che esplode lo straordinario personaggio di Simoncino (Edoardo Pesce), che riesce a oscillare senza sbavature tra la ferocia dei pugni e qualcosa che assomiglia all’affetto per Marcello, che a ben vedere è semplice territorialità, è difesa di quella che alla fine è l’unica persona che non lo tratta semplicemente come un grosso animale rabbioso; questo piccolo canaro anzi cerca di rintracciare in lui la parte docile, così come fa nella scena d’apertura con uno dei suoi animali.
Dall’altro capo della storia c’è proprio Marcello, il canaro interpretato da Marcello Fonte che ha ubriacato l’opinione pubblica più per la sua storia personale che per l’efficacia della sua interpretazione: la sua abilità d’attore (Fonte qui interpreta semplicemente se stesso) conta certamente meno dell’intuizione di chi ha curato il casting, che ha individuato un volto, una parlata, una postura perfette per il personaggio del film.
[SPOILER piccolo piccolo]
Poi arriva la “scena madre” dalla quale Garrone ha tolto i dettagli scabrosi e folli del fatto di cronaca (le mutilazioni e le sevizie del canaro sul corpo della vittima), probabilmente perché irrappresentabili e soprattutto perché non funzionali all’equilibrio drammatico del film: la vera “scena madre” arriva dopo, quando il canaro cerca per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta inutilmente, l’approvazione dei pari per aver eliminato la Bestia.
Il lungo primo piano finale ci lascia il tempo di comprendere ciò che abbiamo visto, finalmente si conclude il processo di immedesimazione: siamo lì, siamo disperati, siamo soli.
Voto: tre bonazzi de L’Imbalsamatore e mezzo su cinque, ma se aspettiamo potrebbero diventare quattro
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