Suspiria (Luca Guadagnino, 2018)
Per me era impossibile resistere al Suspiria di Guadagnino: remake dell’imperfetto capolavoro kitsch-gore di quel pervertito visuale di Dario Argento (Suspiria, 1977), con le musiche del nerd più arrapante del Pianeta, quel Thom Yorke che adesso assomiglia al marinaio dei Simpson uscito dal rehab, l’operazione era praticamente carta moschicida per il mio cervellino.
La faccio breve perché il film va visto assolutamente ma è pieno, gravido di difetti, ed è probabilmente questa imperfezione a renderlo ancora più strano, fuori da questo millennio, incongruo di questi tempi in cui i film e le serie TV si studiano come algoritmi per piacere al pubblico (colpa di Netflix, ma avremo modo di parlarne): troppo lungo, troppo stiracchiato nel ritmo, troppo farcito di manierismi, troppi dettagli di sceneggiatura la quale oltretutto, probabilmente per rendere omaggio a Dario Argento, a un certo punto si accartoccia e, verso il finale, si tuffa a capofitto nel grottesco sfiorando il ridicolo.
Eppure sembra tutto messo lì per una ragione, l’opera ha un suo equilibrio insalubre e ti schiaccia l’anima giù, verso il pavimento, per due ore e mezza.
Dello splendido e coloratissimo delirio di Argento c’è davvero poco, si fatica a definire quest’opera un remake e probabilmente questo è un punto di forza: sarebbe stato impossibile “rifare” Suspiria senza quei colori, senza quel sangue strafinto e senza riprodurre praticamente shot-for-shot lo sguardo chirurgico e crudelissimo di Argento.
Guadagnino se ne guarda bene e se la svigna nella Berlino del 1977, lo stesso anno del primo Suspiria, conservando alcuni nomi, ambientando tutto in una scuola di danza, parlando delle Tre Madri, divertendosi un po’ con qualche zoomata à la Argento e il paragone finisce qui.
Per il resto siamo di fronte a un’opera davvero curiosa, che tradisce le regole del genere (l’horror) dilatando i tempi fino a sfilacciare la tensione, portando l’inquadratura un po’ dappertutto, senza giocare con gli spazi o con gli angoli non visibili in cui si può nascondere “il mostro”. La paura, nel suo senso proprio, è quasi assente ma c’è qualcosa di meglio, o di peggio, che filtra lentamente nei muscoli dello spettatore e quasi li compromette, li intossica in una mimesi automatica con ciò che si vede sullo schermo, vale a dire corpi che si contorcono, saltano, urtano, sbattono, scricchiolano con una resa sonora davvero incredibile.
Esiste un processo psicofisiologico, alla base dell’esperienza estetica, che si chiama decodificazione imitativa: quando osserviamo, ascoltiamo, assistiamo a un’opera d’arte il nostro corpo tende a “micro-riprodurla” attraverso impercettibili movimenti, e questo ci aiuta a viverla emotivamente, perché l’abbiamo rifatta utilizzando noi stessi.
Suspiria sfrutta questa tendenza, mostrando in estenuanti e lunghe sequenze i corpi delle ballerine protagoniste sottoporsi a sforzi, movimenti, urti sempre più innaturali. In tal senso, la sequenza qua e là definita “degli specchi” è una delle cose più disturbanti mai fatte, sia dentro che fuori l’horror.
In termini di ritmo, di inquadrature, di tempi, di narrazione e (più banalmente) di fotografia sembra di guardare un horror degli anni 70, di quelli definiti “soprannaturali” come appunto il Suspiria originale o L’Esorcista (W. Friedkin, 1973), con il quale condivide la passione per la strizzatura dei corpi come fossero stracci da pavimento.
Poi arriva il finale, per il quale invece Guadagnino sceglie di rientrare alla svelta nei canoni dell’horror classico, quindi giù di grand guignol, escalation violentissima e la discutibile ma appunto classica scelta di mostrare tutto il mostrabile, spezzando inevitabilmente il fascino della prima parte. Nonostante questo, l’opera rimane splendida, toccherebbe anche parlare della riflessione sulla maternità, nella sua doppia funzione di vita e di morte (con i cari saluti di Melanie Klein) e sulla colpa (abbiamo bisogno della colpa. Abbiamo bisogno della vergogna) ma non mi va. Le musiche di Yorke, compresa la bellissima e tristissima Suspirium, rendono tutto ancora più strano e scollato dal genere.
Da vedere se avete voglia di stare per due ore e mezza contorti sulla sedia in preda al disturbo salvo poi uscire dal cinema con la sensazione che vi abbiano scopato male i sentimenti e lasciato 20 euri sul comodino.
Mi sembra notevole che ogni recensione sul web ci ha visto temi anche molto diversi tra loro, segno di un film veramente ricco (anche di difetti, son d’accordo con te)!
Kalos
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L’impressione è di un film che “resterà”. Lo ricorderemo
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è stata proprio la mia impressione, la stessa del resto che ho avuto con Chiamami col Tuo Nome. E bravo Guadagnino!
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