JOKER e l’importanza della parsimonia nell’uso della parola “capolavoro”

Joker (Todd Phillips, 2019)
Ovvero: dici a me? Ma dici a me?!?

Non si può certo dire che il 2019 sia stato un anno avaro di blockbuster: dall’ingorda doppietta della Disney che delira revival con Dumbo, dell’ormai addomesticatissimo Tim Burton e Il Re Leone, che mostra le gesta di un Simba renderizzato come uno dei gattini di Facebook che tirano giù i ninnoli dalle mensole, al debordante e deludentissimo Capitolo 2 di IT, passando per l’ultimo di Tarantino che è uno di quel film che devono decantare quindi aspettiamo, fino a questo Joker, l’anno non verrà ricordato soltanto come quello dell’Inno di Mameli sparato a palla dal palco di un locale di truzzi milanesi.
Ah… cazzo ve l’ho ricordato io.

Preceduto da un hype pomposo e retorico almeno quanto l’incredibile Leone d’Oro al miglior film, che appena un anno fa veniva assegnato allo splendido Roma di Cuaròn, Joker è il capolavoro di Todd Phillips, più o meno come La Ricerca della Felicità (2006) è il capolavoro di Gabriele Muccino. Oppure, che ne so: ditemi un libro di Fabio Volo coi congiuntivi a posto. Se pensate che stia esagerando (un po’ esagero a dirla tutta), basti pensare che Todd Phillips è quello di Starsky & Hutch (2004) con Owen Wilson.
Il mio uomo ideale è Owen Wilson ne I Tenenbaum (Wes Anderson, 2001) nella scena in cui si schianta con l’auto contro il cancello di casa. Credo sia giusto che lo sappiate, ormai ci conosciamo da un po’.
Parlando di retorica, il film ne produce davvero tanta, come una gigantesca ghiandola di retorica che spruzza i suoi umori retorici a intervalli regolari, a partire dalla regia e dalla scelta delle inquadrature: i primi piani intensissimi, i tremolii di macchina a contrappuntare la climax, le inquadrature oblique per i picchi di follia del protagonista, gli zoom lenti lenti perché si sa, se zoomi lento lento stai girando un capolavoro. Intendiamoci: non è un brutto film, anzi è un bel film ma l’assordante enfatico orgasmico eiaculare d’opinioni sulla pellicola ne rende necessaria una stroncatura leggera, consapevolmente severa, funzionale al momento diciamo. Prendetela come una recensione non richiesta pedagogica.
Prego.
Una delle prime cose da fare per valutare correttamente e onestamente questo film, è una ruvida operazione di peeling: il primo strato da esfoliare è il più ingombrante, vale a dire la memorabile interpretazione di Joaquin Phoenix, che qui punta al cult istantaneo. A proposito: cos’è successo a Joaquin Phoenix? Me lo ricordavo bono, qua sembra la versione liofilizzata di Javier Bardem in Non è un paese per vecchi (Joel ed Ethan Coen, 2007). L’interpretazione di Phoenix-Bardem riempie talmente tanto lo schermo, e se non l’avesse riempito col talento l’avrebbe riempito con la faccia, visto che Todd Phillips un altro po’ gli inquadra il tessuto epiteliale, che il resto del film quasi scompare: scompare la storia che parte bene e si avvoltola gradualmente e comodamente sul cinecomic da cui dichiara di rifuggire, scompare la regia schematica e quasi seminariale da filmone mainstream denso e impegnato, scompare l’esile tematica sociopolitica che a questo punto perché non è un capolavoro pure V per Vendetta (James McTeigue, 2004)?
Se per voi è un capolavoro anche quello, allora ho capito dove sbaglio.

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[DA QUI IN AVANTI SPOILER]
A riprova di quanto sia indispensabile per questo film l’interpretazione del protagonista, prendiamo una delle scene-icona, quella della danza di Joker nel bagno lercio dopo aver commesso i primi omicidi: si tratta di una sequenza improvvisata dall’attore e completamente off-script. Infatti colpisce per la sua assoluta libertà, non banalità, per come sguscia dalla logica narrativa con estro e coraggio: nella versione originale, Joker avrebbe dovuto correre a vomitare perché, si sa, dopo che ammazzi a freddo tre persone nella metro ti viene da sbrattare la cena. Fate caso a quante volte, soprattutto a Hollywood, abbiamo visto personaggi vomitare allo scopo di mostrarci, in un modo inequivocabile e visivo, un forte tormento interiore altrimenti difficile da rappresentare. Phoenix lo rappresenta a modo suo, rischiando ma riuscendo nell’impresa. Se è quindi indubbio che quella di Phoenix sia stata una splendida e complessa interpretazione, appare tuttavia bizzarra la velocità con la quale è stata salutata come la migliore di tutti i tempi, in linea con l’ingiustificato parossismo orgasmico che coglie la maggior parte delle persone quando si avvicinano a giudicare questo film. Dal momento che, nello sforzo di considerare Joker inconfrontabile, sembra che tutti abbiano perso la memoria non dico dei film di nicchia difficili da ricordare, ma proprio dei cult massicci, delle corazzate del Cinema mainstream, agevolo un elenco veloce e manco tanto ricercato di celebri interpretazioni di matti fracichi sul grande schermo:

Kathy Bates in Misery non deve morire (Rob Reiner, 1990)

Jack Nicholson in Shining (Stanley Kubrick, 1980)

Jack Nicholson in Qualcuno Volò sul nido del cuculo (Miloš Forman, 1975)

Jack Nicholson credo pure mentre dorme (Jack Nicholson, 1937)

Anthony Hopkins ne Il Silenzio degli Innocenti (Jonathan Demme, 1991)

Ted Levine ne Il Silenzio degli Innocenti (Jonathan Demme, 1991)

Bette Davis in Che fine ha fatto baby Jane? (Robert Aldrich, 1962)

Anthony Perkins in Psycho (Alfred Hitchcock, 1960)

Robert de Niro in Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), a cui tra l’altro Joker deve TUTTO.

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Siamo di fronte a un buon film hollywoodiano, nella sua accezione pulita di macchina da spettacolo, sul quale è colata questa placcatura d’oro proveniente da chissà dove, probabilmente dal marketing o anche dal fatto che il Cinema, negli ultimi anni, si è come dimenticato di ferirci, di graffiarci e anche di respingerci se necessario. Si è parlato tanto di ritratto dell’emarginazione di un folle: ma Joker sfiora appena il tema, lo avvicina e se ne allontana prima di scottarsi, prima di farci mettere le mani in qualcosa di sporco e sgradevole. L’immagine della disperata esistenza di Arthur Fleck è come patinata, è resa digeribile da uno sguardo empatico e totalmente assolutorio che praticamente neutralizza il Male che alberga in Joker, trasformandolo in una vittima totale e pura: e così semo boni tutti. Si è parlato molto anche di capolavoro, che è un termine ormai liso, consunto e stracciato dalla retorica enfatica delle reti sociali, più o meno come accade alle parole “genio” o “geniale”. Ma un capolavoro ha una densità, una massa che piega lo spaziotempo e vi si piazza violandolo, modificandolo per sempre. Quando siete di fronte a un capolavoro ve ne accorgete, non è solo il risultato di un’emozione molto forte, quando siete vicini a un capolavoro vi tremano le membra, i capelli vi si elettrizzano sulla testa, voi cambiate. Non lo dico per dire, o per fare lo stronzo, ma per fare in modo che si possano avere le parole, poi, per definire 2001: Odissea nello Spazio o la Cappella Sistina quando li si vede per la prima volta. Joker non è neanche lontanamente un capolavoro, e non lo è innanzitutto per una enorme, clamorosa mancanza di coraggio. Il film non arriva mai a essere disturbante per lo spettatore, e questo nonostante il tema trattato, preferendo rifugiarsi nei ripetuti “plot twist” come quello davvero tanto tanto naïf della ragazza della porta accanto, che oltretutto ha un debito bello grosso con A Beautiful Mind (Ron Howard, 2001). Perché Hollywood, si sa, la psicosi riesce a raccontarla solo con gli amici immaginari.
Nel descrivere l’impatto della solitudine e dell’emarginazione sociale sulle motivazioni del protagonista, il film poi si fa addirittura didascalico: Joker viene aggredito per strada due volte, viene preso in giro per la sua disabilità, vive da solo con la madre, perde il lavoro, in più è matto fracico; che altro deve succedergli per motivarne un disegno di vendetta? Accade dunque che Phillips preferisca spiegarci tutto per filo e per segno in modo che non ci sfugga niente e in effetti capiamo tutti molto bene dove voglia andare a parare, ma il prezzo che si paga quando non ci si fida troppo dell’intuito del pubblico è la creazione di un’opera artefatta, un marchingegno fatto per piacere. Il film funziona molto di più quando diventa onesto, come nella bellissima sequenza in cui il protagonista si alza dal pubblico del suo show preferito e racconta la sua storia: qui il livello di assurdità delle immagini cui assistiamo è talmente caricaturale che proviamo una delusione vera, vivida, tagliente quando capiamo cosa sta succedendo. Ecco, in quel caso, e forse solo in quel caso, il film ci ferisce, ci fa del male.
Ovviamente la severità non richiesta di questa recensione è motivata principalmente dalla pompa magna che lo ha condotto in trionfo dappertutto nelle ultime settimane, quindi è giusto chiudere con un elenco dei motivi per cui il film funziona: le citazioni e i rimandi interni ed esterni alla storia, davvero gustosi e supernerd; gli innesti comici slapstick che non imbrattano la tragedia, anzi la rendono più densa e disperata, come la pistola che cade dalla tasca del protagonista durante una sua performance oppure la sua testata contro il vetro dell’ingresso dell’ospedale; lo splendido personaggio di Robert de Niro che si prende gioco di Joker quasi che a parlare fosse il Travis Bickle di Taxi Driver; il sottotema dell’invasione di immondizia a Gotham City che avrà scatenato in noi romani un’empatia selvaggia.

Voto: tre Owen Wilson ne I Tenenbaum che si schianta contro il cancello di casa su cinque

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