Questo è un flusso di pensieri non richiesto, con la forma e la natura di un flusso di pensieri. Curiosamente è proprio ciò contro cui questo articolo si scaglia (le cose poco riflettute) eppure tant’è: si ambisce al cortocircuito.
È difficile non parlare del covid. Ma è anche difficile parlarne. Non si tratta solo di dare aria alla bocca né di prendere treni in corsa, quelli dei trend del momento, o del meme perfetto con l’efficacia di sintesi di un sonetto ungarettiano. Non è in discussione la potenza concettuale delle analisi, ne leggo di molto efficaci, di belle, di poetiche, di patetiche, di stupide, di insensibili ma anche di sensibili, di dolci di accomodanti, di confortanti di universali. Che dire poi delle vignette, degli scarabocchi dei video, delle accorate cronache della quarantena che quarantena non è, che senza volerlo prendono per il culo chi è isolato in una camera d’ospedale da giorni talmente omogenei che non riesce sul serio a distinguerli e vede solo vassoi a pranzo e a cena che compaiono all’uscio, come sbucati da botole nel pavimento. Non è in discussione la difficoltà che chiunque vive nel gestire la propria costrizione domestica, e diciamo che ho fatto pace anche con i cori che tuonano qua e là striduli, qua e là calanti dai balconi.
Però ieri sono morte 475 persone, in un solo giorno, e non è possibile che il flusso di cose scorra inalterato. Perfino la satira, che è una forma senza limiti, non è però priva di regole: Lenny Bruce la racchiudeva nell’equazione “tragedia+tempo” che non mi risulta sia stata ancora confutata. Lo stream di informazioni, di parole, di foto, di video, di articoli, di meme, di battute, di riflessioni, di voi, di me, di tutto non può scorrere indisturbato se nella gigantesca bolla in cui siamo rinchiusi sono morte in un solo giorno 475 persone, se a Bergamo i cadaveri sfilavano nei blindati militari che andavano lenti lenti, come nei funerali, ma senza nessuno a seguirli, senza canti.
Senza pianti.
Chiunque ha una responsabilità tra le mani quando armeggia con un profilo social ed è inutile girarci attorno: siamo tutte piccole emittenti, broadcast di noi stessi, che sparpagliano il più delle volte a casaccio le proprie cose, e il più delle volte diciamo che va bene così.
Ma non ieri. Non oggi. E forse neanche domani. Chi scrive ha la fortissima convinzione che nulla sia sacro a sufficienza da essere immune dalla critica, dall’analisi, dalla recensione ma qua parliamo d’altro, parliamo di rispettare noi: ciò che siamo e ciò che stiamo diventando.
Tutta questa retorica del tempo! Il tempo sprecato, quello perduto, quello recuperato, quello riflettuto in questi giorni in cui tutto è rallentato, in cui tutto è stato rallentato a forza, da una forza esterna e microscopica. E fa dispiacere constatare come sia già diventato un argomento banale dire che in questi giorni, nei giorni del covid, sia necessario riflettere sulle cose che contano davvero, provando a togliere, togliere, togliere anziché accumulare e consumare come s’è fatto fino ad ora. Dispiace che sia già un argomento banale perché probabilmente è stato descritto e raccontato male, perché banale assolutamente non è. E in questi giorni si vive tutti più a contatto con i rumori, con i propri rumori, con quelli degli altri, con l’assenza di rumori, con quel brusio continuo continuo continuo che è semplicemente il suono che fa l’esistere quando vi si poggia l’attenzione.
E in questi giorni in cui si riflette, e lo si fa tanto e quel riflettere fa brusìo, la forza microscopica, che da fuori minaccia di entrare dentro di noi, ci spinge dentro le nostre case, ci spinge ad abitarle troppo, diremmo quasi a infettarle, a cambiarle e a cambiare noi con loro. Come fa la forza microscopica che iniettandosi deforma la struttura di qualcosa da cui dipende disperatamente. In questo sovvertire i rapporti tra dentro e fuori così come ce li hanno insegnati esiste proprio quella logica nata già banale chissà per quale ragione, del cambiare le nostre abitudini, del ritrovare forse quelle giuste, viene quasi da dire quelle giuste, sì. Ma questa cosa vera e banale che banale non è, rendiamola valida per tutto, non solo per gli aperitivi, per le corse a prendere la metro, per le performance sociali, per il ricorso al sesso come al McDonald’s: è di troppo anche quel bisogno di dire sempre ciò che si pensa. Sempre. Fottendosene di ciò che accade, contrapponendo al flusso del reale il flusso di bit che scorrono indifferenti come se a scatenarne il moto non fossimo noi.
Esistono cose davanti alle quali bisogna arretrare, e se non riusciamo a onorare centinaia di morti neanche col nostro silenzio, siamo davvero fottuti non dico come esseri senzienti ma come strutture biologiche.
Qua però non si parla di fare un silenzio assoluto, un minuto di silenzio come negli stadi che ormai si stagliano vuoti oltre le mura delle città, chissà se qualcuno ne sta potando il prato. Si faccia una moratoria delle cose dette tanto per dire, o perché sono divertenti, o perché giuste, o perché intelligenti ma non abbastanza da capire in cosa stanno sbattendo i piedini. Si impari ad annusare l’aria. O, se proprio si vuole essere degli stronzi insensibili, si impari almeno a dire cose che valgano a lungo.
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