Omolesbobitransafobia: non c’entra l’amore e neppure la paura

L’amore

L’amore è amore. Love is love.
Storco sempre il naso quando leggo queste cose in occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia, la Lesbofobia, la Bifobia, l’Afobia e la Transfobia oppure quando, più in generale, si commenta qualche episodio di violenza o marginalizzazione ai danni della Comunità LGBTQIA+, anzi il naso mi si storce da solo, strizzato da una forza di cui non scorgo l’origine.
Forse però l’origine la scorgo, anzi se strizzo un po’ gli occhi ne vedo due: l’amore non c’entra, o meglio non c’entra sempre, e soprattutto non è una questione di uguaglianza.

Sul primo punto si aprirebbe una letteratura, perché questa reductio ad amorem, questa retorica che chiama amore qualsiasi cosa, qualsiasi forma di relazione, qualsiasi incontro, possiede tutte le caratteristiche di una clamorosa banalità. Non è detto che chiamare “amore” il sesso occasionale, per esempio, finisca poi per nobilitarlo, anche perché si può conferire al sesso a casaccio una nobiltà sua, senza bisogno di metterlo a traino dell’amore. Parlare sempre e solo di amore provoca poi l’offuscamento, abbacinato da questo concetto altissimo e poeticissimo, di tutto ciò che non ha a che fare con l’esistenza di un altro. Le “questioni” LGBTQIA+ non sono soltanto relazioni: c’è di mezzo l’identità (come quella di genere), c’è di mezzo la cultura, c’è di mezzo l’estetica, c’è di mezzo la politica, ci sono le persone aromantiche. Parlare solo di amore fa un po’ l’effetto di un bello scroscio d’acqua che piomba all’improvviso nel tuo bicchiere di rosso corposo, leggermente tannico, ho finito le mie competenze sul vino.

Per quanto riguarda il secondo punto, vale a dire il tema dell’uguaglianza, ebbene qui il naso mi si storce più volte, fa diversi giri su se stesso, mi cade dalla faccia, tocca terra, rimbalza e mi si infila su per il culo: per quale motivo pensate che, 50 anni dopo i moti di Stonewall, il Pride non ci veda per le strade in giacca e cravatta, o in tailleur, o con la parannanza o con addosso i tratti distintivi dei cishetti qualunque essi siano? Già: da cosa ci si veste per rappresentare persone eterosessuali e cisgender? Io sto a posto con un boa di struzzo sintetico fucsia, che dopo 5 ore di contatto cutaneo a 35 gradi mi deposita nuove forme di vita queer sul collo… ma i cishetti?
Comunque sto divagando. La questione è: non è un fatto di uguaglianza, non dobbiamo assomigliarci, non vogliamo assomigliarci, perché love isn’t love, perché altrimenti a vincere è il modello dominante di “love” che poi stringi stringi è quello che sta succedendo, basta vedere quanto strenuamente stiamo rivendicando il diritto a una cosa come il matrimonio, i figli, la casetta con lo steccato, poi voglio due cani e un gatto, ma il gatto dev’essere super amico dei cani, cosicché io possa postare le foto su Instagram con l’hashtag #amonoi #supercute. In questo modo la cosa si sposta su un tema rischiosissimo che è quello dell’assimilazione: tant’è che anche nel mondo LGBTQIA+, anzi soprattutto in quello gay che è la parte più conservatrice dell’acronimo, ci si sta appiattendo su un modello che perfino ai cishetti fa schifo, tant’è che loro se ne stanno bellamente sbarazzando, mentre noi ci stiamo finendo mani e piedi, festanti e felici di fare il nostro ingresso nel rudere relazionale e sociale del matrimonio e del chiassoso equivoco rappresentato da un “per tutta la vita” stabilito a priori.

La paura

Sebbene privato della sua connotazione clinica già negli anni 80, il termine omofobia nasce in ambiente psicologico e con una chiara caratterizzazione medica. Lo psicologo statunitense George Weinberg, in “Society and the Healthy Homosexual” (1972), la descrive proprio come una paura irrazionale addirittura connessa a timori di contagio

“a fear of homosexuals which seemed to be associated with a fear of contagion”

il concetto di omofobia in sostanza nasceva con tutte le caratteristiche di una fobia clinica

“la paura irrazionale di trovarsi in luoghi chiusi con persone omosessuali e le reazioni di ansia, disgusto, avversione o intolleranza che alcuni eterosessuali possono provare nei confronti di persone gay o lesbiche” (Weinberg cit. in Lingiardi, Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, 2007)

Se oggi è accettato comunemente che l’omofobia, e i più recenti concetti di bifobia, transfobia, afobia e lesbofobia, abbiano perso l’allure clinica degli esordi, è pure vero che alcuni residui di quella concezione iniziale resistono anche oggi. Basti pensare all’idea, ancora diffusa soprattutto nell’ambiente gay, che l’omofobia sia una forma di omosessualità latente, perciò insoddisfatta e inaccettabile a tal punto da generare forti reazioni di odio.
Questa idea è decisamente romanzata e verrebbe da dire quasi un desiderio proibito, coccolato dal porno gay che sfrutta l’immagine dell’eterosessuale (ovviamente maschio) che prima di cedere alle attenzioni omosessuali manifesta disgusto, fastidio, rabbia.
Ce piacerebbe a tutti, ma queste cose accadono di rado e comunque servono litri di gin tonic, con il concetto di “consenso” che si sfuma fino a raggiungere dimensioni pericolose.

Un altro residuo della “storia clinica” del termine omofobia sta nel suo comune racconto, soprattutto mediatico, attraverso singoli episodi riferiti dal giornalismo come se fossero esplosioni improvvise, gesti folli slacciati da narrazioni ben più compatte e continue nel tessuto sociale. La stessa cosa accade alla violenza di genere, se ci pensiamo.
Naturalmente questo non è sufficiente a spiegare un fenomeno che non ha a che fare solo con i fatti di cronaca, con le aggressioni per strada, con le discriminazioni sul lavoro, con i padri che buttano i figli fuori di casa: come per il discorso sull’amore, c’è dell’altro, e quest’altro sta nella dimensione collettiva e addirittura politica delle comunità nelle quali si manifestano l’odio e l’esclusione sociale ai danni delle persone LGBTQIA+.
Che poi sono tutte le comunità, nessuna esclusa.
Con la cosiddetta omofobia si fanno le leggi, ci si costruisce un modello culturale che esclude i migranti, si discriminano le donne, ci si fa addirittura un sistema economico. Quindi “fobia” de che.

Dal momento che le parole definiscono e modellano anche le categorie con cui pensiamo, com’è possibile che nella comunità LGBTQIA+ si presti la massima attenzione al linguaggio sessista, alla neutralità di genere negli aggettivi, ma si utilizzi ancora un termine che va detto, è molto comodo, ma che non riesce a descrivere ciò di cui stiamo parlando?
Dire “omofobia” significa aprire nella testa delle persone, sia quelle che fanno attivismo, sia quelle cui l’attivismo è rivolto, immaginari automatici ben precisi: la paura innanzitutto è privata, è personale, la “persona omofoba” sembra agire per fatti suoi, addirittura per questioni legate alla sua storia individuale. Questo depoliticizza il concetto e lo consegna ai singoli comportamenti. Senza contare che anche la dimensione del singolo comportamento è deformata dall’idea di “fobia” perché indirettamente, sotto sotto, deresponsabilizza chi la manifesta. L’intolleranza o l’odio verso una persona trans possono essere il frutto di una biografia culturale e familiare, ma non derivano da meccanismiinconsci incontrollabili: sono un atto deliberato di sopraffazione, l’esercizio violento di un privilegio.
Ciò che cerchiamo di descrivere con i termini omofobia, bifobia, lesbofobia, afobia e transfobia è la manifestazione, ai danni delle persone LGBTQIA+, di quella stessa cosa che in un altro ambiente diventa violenza di genere (per non parlare del fatto che aggredire donne trans perché trans è violenza di genere), in un altro ambiente diventa mascolinità tossica, in un altro addirittura il cazzo di neoliberismo. Parliamo del patriarcato, del sessismo, di modelli articolatissimi e ben avvitati sulle nostre società, pure in quelle che apparentemente ci fanno sposare, amare alla luce del sole, che bello, gli arcobaleni, quelle cose lì.

L’odio

Forse c’è una parte di quel “passato clinico” della parola omofobia che possiamo ancora considerare valida, ed è quella che riguarda gli aspetti interiorizzati del modello oppressivo. La chiamavamo “omofobia interiorizzata”, e ogni tanto ancora interviene per suggerirci una ritirata, quando si agita la battaglia.
Tanto per cominciare, bisogna tornare a dare un nome ai propri nemici, senza personificare concetti astratti o generali come “la società” o “l’omofobia”. Gioia mia, i tuoi nemici sono la Chiesa, i fasci, i democristiani che non sono mai spariti antropologicamente, la Chiesa, i cosiddetti “liberali” che quando chiedi loro di legalizzare una cosa a caso spariscono dalla circolazione, “quelli di sinistra” che parlano solo di diritti civili ma poi si dissolvono quando c’è da pensare a un modello economico giusto e inclusivo, la Chiesa, i preti, i Papi, questo Papa e il sottobosco incantato di reazionari baciapile riformisti che ti ritrovi nel dibattito, a mazzetti e senza averlo chiesto come il prezzemolo dal verduraro.
Odia chi professa discriminazione fingendola a difesa dei bambini, i bambini che non si possono difendere, che non possono scegliere se essere cresciuti da coppie omosessuali. Ma quali bambini? I bambini come concetto? Li conosci personalmente? Ma di che stai parlando?
Odia chi è vile, chi si nasconde dietro a qualche grosso Potere per menare fendenti da un buon punto d’osservazione e soprattutto al riparo. Per esempio i parlamentari cattolici, che cazzo è un parlamentale cattolico? E i comunisti cattolici, Dio del Cielo! Che cazzo sei? Che problemi hai? Forse ti ha cresciuto una coppia di omosessuali?
E poi odia i partiti che hanno pompato un sacco di soldi per consentire al maggior numero di persone di partecipare ai Family Day, al Congresso di Verona o all’ultima trovata degli Stati Generali della Natalità: un mare magnum di stronzi che manifestano tutti contenti contro l’estensione dei diritti. Ma che schifo di persona sei? Ma non hai altre cose da fare, tipo sfilarti dal genoma in modo da favorire la nascita di una Nuova Era di prosperità civile?

Odia. Perché in fondo, come recita la sciatta retorica di questi nostri tempi molli, è solo questione di AMORE ❤

Ah, no…aspetta.

5 risposte a "Omolesbobitransafobia: non c’entra l’amore e neppure la paura"

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  1. Bene hai fatto a generalizzare il discorso.
    Il problema relazionale tra individuo e istituzioni, o società, o umanità, insomma tra l’uno e i molti, va visto un po’ al di fuori di come decidi di usare le tue gonadi.
    Il problema sta nell’insanità dell’idea che ti vede più legittimato se firmi idealmente un contratto sociale e ti riconosci in un modello, in modo da ottenere un riconoscimento che da semplice, solo e unico individuo non ti viene dato.
    Per alcuni la repressione (data e ricevuta) è l’unica maniera di procurarsi un orgasmo.

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    1. Esattamente, e infatti il motivo per cui questo acronimo LGBTQIA+ diventa sempre più lungo sta proprio nell’uso politico, nel senso più bello del termine, dei vari modi “altri” di vivere sia le relazioni che le identità. Si possono e si devono suggerire nuove forme di affetto, e anche di non affetto, ecco perché parlare di “amore” quando parliamo in realtà di quel rapporto tra uno e molti di cui parli tu, è molto rischioso

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